Nella rassegna stampa di oggi mi ha colpito la notizia relativa alla ricerca dell'OCSE. Questa evidenzia come 1 italiano su 3 comprenda solo testi brevi e chiari, riscontrando difficoltà nell'effettuare collegamenti complessi.
Alla luce di questi dati, una domanda che mi pongo da psicoterapeuta, è come sia possibile per un essere umano essere accessibile a se stesso e all'Altro relazionale, rendersi comprensibile, intrattenere un dialogo appagante nella sua religiosa interiorità o nel chiasso del mondo quando le sue capacità linguistiche e lessicali sono così scarne e traballanti.
Questo aspetto emerge con forza dalla stanza di terapia, perché al suo interno lo strumento principe solo le parole. Senza di esse non esisterebbe alcuna magia possibile.
A volte la cura, per quello che questo termine possa significare, consiste unicamente nello scegliere, nel saper scegliere, il giusto termine che dia forma ad un'inclinazione dell'essere della persona che ho di fronte.
Come un artigiano che manipola l'argilla, un terapeuta plasma la sostanza di cui siamo fatti con la parola. Pesandola, tacendola, selezionandola, coniandole di nuove, modellandola, sostituendola e cercandola.
Chiaramente sono contento quando qualcuno decide di collaborare con me e di chiedere il mio supporto nel ricucirsi, tessersi o dipanarsi attraverso le parole che posso offrirgli. Dall'altra parte constatare tutto questo bisogno di “terapia”, oggi molto più presente di ieri, un pò mi rattrista.
Certo, non è soltanto questa aridità lessicale diffusa a rendere utile il lavoro di noi terapeuti. Viviamo un tempo dove l'orrore della guerra è capillare, la povertà delle relazioni umane sempre più imperante, il mondo del lavoro potrebbe estrometterci e dove la panacea fornita dal consumismo si è inceppata.
Tutto chiaro, ma questi sono motivi che rimarcano ulteriormente il bisogno di avere parole. Oggi più che ieri.
Una parte di me, forse un pò masochista, sogna un mondo dove sia obbligato a cambiare lavoro.
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